LUT 120k 2023: ricordi di un'impresa doloMitica
Lavaredo Ultra Trail 120 Km
I piedi nudi affondano lentamente nella sabbia umida mentre le dolci onde mi accarezzano le caviglie.
Guardo l’orizzonte di un mare piatto su cui nuvole lontane nascondono il sole che sta albeggiando; chiudo gli occhi e lascio che il Mediterraneo mi infonda la sua enorme calma, mentre attorno a me brulicano nel buio centinaia di persone, chi sul bagnasciuga e chi in acqua.
Quasi un anno di “viaggio” per trovarmi finalmente sulla spiaggia di Calella, per il mio esordio nella gara regina del triathlon: l’Ironman full distance di Barcellona.
Con gli occhi chiusi penso a ciò che mi aspetta: quasi 4 km di nuoto, 180 km in bici e 42 km di corsa senza sosta.
Fino a qualche mese fa questi numeri mi spaventavano, ora mi attraggono e non vedo l’ora di affrontarli: ancora un’ora e potrò mettermi alla prova, ma adesso devo trovare la mia concentrazione, tengo gli occhi chiusi e ascolto i miei pensieri e il battito del cuore.
I miei tre compagni di viaggio, Pado, Gio e Max, sono in mare a “provare l’acqua”. Io ho già nuotato ieri per prendere confidenza con questo tratto di mare a cui ho chiesto il permesso di entrare e la cortesia di farci trovare delle belle condizioni in gara, pertanto questa mattina preferisco cercare di entrare in sintonia con lui solo ascoltandone il lieve sciabordio e rilassandomi mentalmente.
Ripenso al motivo per cui sono qui.
“Tecnicamente” perché il Mago mi ha convinto ad iscrivermi un anno fa (e purtroppo per un infortunio lui non è qui con me).
“Praticamente” perché mi piacciono le grandi sfide con me stesso.
Ripenso a questo anno intenso.
A tutti gli allenamenti, sia a quelli fatti, ma soprattutto a quelli saltati, tanti, troppi: mi ero ripromesso di seguire con dedizione tutte le tabelle del coach Giovanni Cinque, per gli amici Coach5, ma come sempre le vicissitudini della vita quotidiana e degli impegni che mi creo mi portano a dover ridurre il tempo per lo sport.
Ripenso a mia mamma.
Riapro gli occhi per cercarla oltre le nuvole all’orizzonte: so che è lì e mi sta guardando dall’alto.
So anche che sta pensando “Tu sei matto!”, ma che comunque crede in me incondizionatamente e mi starà accanto per tutta la gara.
Richiudo gli occhi, ora gonfi e lucidi.
Ripenso alla mia piccola famiglia.
Vorrei fossero tutti qui con me e sentire Agata urlare “Forza papà!” come quando da piccola veniva alle mie prime gare. Ma in fondo so che ci sono, con il loro amore e il loro supporto.
Ripenso alla mia squadra.
So che oggi tutti faranno il tifo per noi quattro, che siamo a Barcellona in rappresentanza della SGM Triathlon. So che ci seguiranno incessantemente sull’app Ironman, commentando i tempi e le frazioni: non posso deluderli!
Ripenso alla montagna.
Quest’anno ho tradito i sentieri, i boschi e le salite, tornando alla triplice dopo due anni di sole gare di trail e di ultratrail. Penso a quanto mi sia servita questa lunga parentesi, a livello fisico, ma soprattutto a livello mentale.
La gara principe dell’anno scorso è stata la Lavaredo Ultra Trail, 120 km con quasi seimila metri di dislivello sulle Dolomiti per oltre 22 ore di tempo. Forte di questa esperienza non mi devono spaventare le 12 o 13 ore di un Ironman.
I miei compagni stanno uscendo dal mare mentre lo speaker dagli spalti invita tutti a recarsi nelle griglie di partenza.
Il tempo di farci fare una foto insieme per immortalare questo momento e ci salutiamo con abbracci e imboccallupo.
Io ho deciso di seguire il consiglio del Mago e di entrare nella griglia fra i primi, quelli che contano di fare la frazione di nuoto in un’ora e 5 minuti: non so se ho questo tempo nelle braccia, ma conto di trovare qualcuno più forte di me e mettermi in scia.
Mi trovo da solo in mezzo a tremila persone quando sale una lenta musica che mi tocca il cuore e lo speaker inizia il suo discorso (video)
C’erano nuvole nere e pesanti sopra la testa, tuoni e fulmini sul Mar Mediterraneo.
Era una mattina presto di ottobre 2014 quando la M col pallino atterrò sulla spiaggia del Mar Mediterraneo e l’Ironman iniziò qui a Calella.
Bentornati!
Dieci anni dopo, la decima edizione dell’Ironman Calella Barcellona sta per iniziare per oltre 3.000 atleti da 91 nazioni.
Voglio che pensiate al numero dieci: cosa significa il numero dieci?
Se lo scomponete, avete il numero uno: il numero uno significa il meglio.
E l’Ironman Calella Barcellona è una delle migliori gare Ironman al mondo.
È una gara meravigliosa in un posto meraviglioso.
Ma ciò che rende questa gara la migliore siete VOI!
Tutti e 3000 voi, in fila sulla spiaggia, qui, in attesa del vostro grande, meraviglioso giorno.
Perché voi siete i migliori!
Voglio che ogni atleta ora allunghi la mano e la appoggi sulla spalla dell’atleta accanto.
Eccovi qui, braccio a braccio, atleti: non conoscete quelli intorno a voi, ma voglio che pensiate a questo mondo, il mondo in cui viviamo in questo momento e guardateci qui, ora.
Oggi ognuno di voi ha un compito:
E uno per uno, sistemeremo questo pianeta.
Benvenuti nel vostro viaggio: nuotate, pedalate, correte.
Benvenuti al vostro Ironman Calella Barcellona.
Mi ritrovo con le mani sulle spalle di sconosciuti, ancora una volta con le lacrime agli occhi.
E come se non bastasse, dopo un applauso, lo speaker continua:
Ora pensate a tutte queste persone sulla spiaggia intorno a voi.
Guardate tutte le famiglie, tutti gli amici e gli spettatori.
La tua famiglia e i tuoi amici saranno con te in ogni bracciata, in ogni giro di pedale, in ogni passo della corsa…
C’è un’ultima cosa che ti chiedo di pensare: ognuno ha il proprio PERCHÉ.
È quella cosa che ti fa alzare dal letto al mattino quando è ancora buio, che ti star fuori per lunghe giornate di allenamento.
Poiché è questo il motivo che oggi ti renderà un Ironman!
Mi asciugo le lacrime che non ho provato nemmeno a trattenere mentre lo speaker invita tutti gli atleti al loro esordio sulla distanza ad alzare la mano: un po’ timidamente vedo tutti quelli con la cuffia arancione, segno distintivo dei “first time ironman”, con le mani in alto.
Poi è il turno delle circa 500 donne farsi notare tra la moltitudine di triatleti.
E infine tutti sono invitati ad alzare le mani per il rito d’iniziazione tipico delle gare del circuito Ironman: si interrompe la musica motivazionale e inizia un ritmo tribale via via crescente scandito da un incalzante “tum tum clap – tum tum clap” dove ad ogni clap tutte le mani alzate al cielo battono all’unisono e le voci gridano “UH!” come moderni spartani in procinto di andare in battaglia. (Video)
E infatti lo speaker ci sprona a tempo dicendo: “You are warriors! You are ready to swim, to bike, to run!” mentre i battiti delle mani e del cuore aumentano la frequenza fino a trasformarsi in un enorme applauso collettivo.
Mancano 60 secondi allo start e parte il riff di chitarra di Angus Young che avvia la mitica Thunderstruck: come ogni gara Ironman che si rispetti gli AC/DC accompagnano il suono della tromba che segna l’inizio e gli atleti che corrono verso il mare 5 alla volta ogni 5 secondi.
Come una grossa mandria veniamo spinti tra le griglie verso la linea di partenza e nel tragitto si deve passare in un suggestivo e buio tunnel sotto gli spalti del pubblico Vip: le pareti di questo passaggio sono piene di frasi di incitamento, firme e disegni e man mano che si avanza lentamente la luce in fondo al tunnel diventa sempre più accecante.
Quando gli occhi si ri-abituano alla luce lo scenario che mi si para davanti è spettacolare. Centinaia di spettatori fanno da ali alla corsia di partenza sulla spiaggia e un fiume gorgogliante di atleti delinea la traiettoria che dovrò seguire in mare dal bagnasciuga verso la prima grossa boa.
Con la formula “rolling start” mi devo mettere in fila in uno dei 5 corridoi e avanzare di un passo ogni 5 secondi finché non sarà il turno del mio gruppetto: scelgo il corridoio di destra, quello più in linea con la boa, visto che vorrei tenere una traiettoria il più ottimizzata possibile, anche se può voler dire avere più concorrenti vicini.
Tra 15 secondi toccherà a me: riporto i miei pensieri di nuovo al qui e ora perché la testa deve essere concentrata.
Il suono della tromba ha lo stesso effetto che si vede nelle corse dei cavalli e mi lancio di corsa sulla lieve discesa sabbiosa che porta al mare; (a differenza di Cervia) so che qui bastano due passi in acqua per trovare la profondità necessaria ad iniziare a nuotare, così mi tuffo e percorro i primi 10 metri in apnea subacquea, il mio modo per entrare a far parte del mondo marino e chiedergli di accogliermi come fossi un essere acquatico.
Porto lo sguardo in avanti e vedo distintamente in superficie le sagome dei triatleti che hanno iniziato il loro viaggio 5 secondi prima di me: la visibilità è perfetta e il mare è completamente piatto!
Mi pregusto una bella nuotata.
Riemergo e cerco il mio ritmo, sfruttando al massimo lo scivolamento offerto dalla muta, con bracciate regolari e senza affanno; ogni tanto verifico frontalmente la traiettoria verso la boa e tengo sotto controllo gli altri nuotatori, mentre mi accorgo che ne sto superando parecchi.
“Ma come? Non dovevano essere più veloci di me? Come faccio a mettermi in scia se sono tutti più lenti?”
Smetto di farmi domande e decido di tenere il mio ritmo: ho passato la prima boa di svolta, ho già spezzato il fiato e sento che potrei continuare così per sempre.
“Che bella sensazione! Adoro nuotare in mare.”
Guardo il fondale sabbioso, 5 metri sotto di me, e saluto mentalmente le grosse ed innocue meduse che si lasciano trasportare dalla corrente, che in questo tratto mi è contraria: “meglio, sarà a favore sul lungo tratto del ritorno di questo percorso a L” penso mentre passo accanto a tanti che mi precedono.
Tengo una respirazione regolare, prevalentemente a destra e occasionalmente a sinistra, per controllare entrambi i lati, con occhiate fugaci in avanti, per inquadrare e traguardare la boa successiva, fino a quella che dichiara la fine del primo tratto lungo costa verso Barcellona e costringe il serpentone di triatleti a virare verso il largo.
Stringo talmente sulla boa che mi ci trovo direttamente sotto, evitando la folla in curva; attivo le gambe per uscire dal gruppo che si è creato in questo imbuto e sfilo via, per poi ritrovare la mia andatura solitaria. Finalmente vedo davanti a me dei piedi che non riesco a raggiungere: “ecco arrivato il momento di mettermi in scia”. Mi sento quasi risucchiato dal flusso d’acqua che mi travolge, mentre la visibilità diminuisce per tutte le bollicine delle energiche gambate della mia lepre.
Per sicurezza controllo se la prossima boa di svolta è in dirittura d’arrivo e mi rendo conto che la traiettoria seguendo quei piedi non è delle migliori: “È meglio se fai la tua gara” mi suggerisce la voce nella mia testa, così esco dalla scia, riattivo le gambe e tiro dritto.
Aver usato così energicamente le gambe però non è stata una scelta vincente perché sento il sopraggiungere di un crampo al polpaccio destro, avvinghiato nella stretta muta.
Rallento un po’ e attivo una respirazione più profonda con l’obiettivo di ossigenare bene i muscoli e sciogliere il crampo imminente. Funziona!
Raggiungo la boa di svolta a sinistra per iniziare il lungo ritorno verso Calella, parallelo alla spiaggia, dove posso riprendere un bel ritmo, confidando nella corrente, questa volta a favore.
Anche se so di perdere l’efficacia di un paio di bracciate voglio controllare il tempo sul Garmin: 1820 metri in 29 minuti! “Di questo passo potrei chiudere la frazione di nuoto in un’ora!”
Questo pensiero mi galvanizza, ad ogni respirazione guardo il sole che buca le nuvole lontane e penso a chi mi sta aiutando dall’alto.
Il tempo vola, le boe di segnalazione sfilano via e supero ancora tanti atleti nella mia corsa solitaria verso l’ultima boa di svolta a sinistra che mi porta in direzione dell’uscita dall’acqua.
Il mare, che è stato una tavola fino ad ora, comincia a incresparsi e aumenta il moto ondoso; a questo si aggiunge il fatto che non riesco a vedere il punto esatto dove atterrare sulla spiaggia, trovandomi a mezzo chilometro da riva. Provo a guardare i nuotatori davanti a me, ma sono tutti sparpagliati su traiettorie diverse tra loro; mi piazzo dietro ad un gruppetto e li seguo per un centinaio di metri, prima di capire che non stanno seguendo la direzione ottimale. Mi sgancio e mi dirigo verso un altro gruppo che mi sembra più in bolla, finché non scorgo il punto esatto sulla spiaggia dove stanno uscendo gli atleti che mi precedono: attivo i piedi per far affluire sangue alle gambe che tra poco mi serviranno e via dritto, a tutta.
Nuoto fino a due metri dal bagnasciuga, appena riesco ad appoggiare i piedi a terra mi allargo la muta dal collo per far entrare un bel po’ di acqua che mi rinfresca e mi aiuta a sfilare la prima manica mentre esco barcollante.
Butto l’occhio sul Garmin: 3.850 metri, 1 ora e 1 minuto! Wow!
Penso allo stupore dei miei compagni di squadra, che mi stanno seguendo tramite l’app Ironman, quando vedranno questo tempo.
Corro tra due ali di folla in direzione zona cambio mentre finisco di sfilare la parte superiore della muta avendo l’accortezza di lasciare cuffia ed occhialini nella manica.
Poiché avevo memorizzato bene l’esatta posizione dove cambiarmi e la strada da fare per raggiungerla, mi dirigo a colpo sicuro verso il numero 2394 e trovo velocemente il punto dove ci sono appese le mie sacchette contenenti i cambi.
Ripenso all’allenamento mentale fatto nei giorni scorsi per ricordare la sequenza delle cose da fare in zona cambio e agli esercizi di visualizzazione utili per non commettere errori e limare qualche minuto durante le transizioni: ora mi basta solo premere play e riprodurre le azioni.
Finisco di sfilare la parte bassa della muta, allaccio la fascia cardio, indosso un po’ a fatica sulla pelle bagnata l’aderentissima maglia da bici con i colori SGM, infilo la cintura porta-pettorale, indosso le scarpe, allaccio il casco e inforco gli occhiali. Quindi carico 5 panini nelle tasche della maglia e della cintura a mo’ di cartuccera: saranno il mio pranzo, insieme a gel e barrette che già si trovano sulla bici.
Accartoccio la muta nel sacchetto, lo riappendo al suo posto e via di corsa nel campo da calcio con le rastrelliere per le biciclette verso il corridoio n° 25, dove mi aspetta la mia.
Noto con piacere che la maggior parte delle 3000 biciclette sono ancora lì: quasi tutti i partecipanti sono ancora in mare e siamo in pochi ad essere già in T1.
Accanto alla mia bici c’è quella di Giovanni “Krushiov”, mio compagno di viaggio e di stanza in questa trasferta catalana: mentre corro spingendo la bici verso l’uscita ripenso alla sua ansia di ieri per un guasto al cambio elettrico che ha rischiato di fargli saltare la gara.
Fuori dalla zona cambio passo accanto ai giudici che verificano con attenzione che sia tutto a posto e che invitano a salire in bici solo dopo aver superato la banda di segnalazione di fine transizione: premo “lap” sul mio garmin mentre salgo in sella, il tempo di visualizzare 6 minuti e briciole sul display e la lunga frazione di bici può iniziare.
Il primo chilometro è tra le strette viuzze di Calella, tra sottopassi, dossi e rotonde: è vietato mettersi in posizione aerodinamica e anche superare rischia di essere pericoloso quindi si sta tutti ordinati in fila finché non si raggiunge la fine del paese e ognuno può fare il proprio passo.
La strategia di gara per la frazione bici definita con Coach5 per quanto mi riguarda è molto semplice: “Usa il cuore e stai in Zona 2, tra 115 e 120 battiti al minuto, alimentati e idratati regolarmente”
In pratica devo mettere il cruise control e fare rifornimento ogni 20 minuti per replicare il passo gara che abbiamo definito nell’ultima uscita insieme, nel piattone delle mie campagne, dove a 115 battiti giravo a 32 km orari.
Facile a dirsi se non fosse che appena fuori dal paese ci aspetta una salita e il cuore schizza oltre i 130 battiti: “Hey, rallenta” dice la vocina nella mia testa. Poi via in discesa e di nuovo in salita: “Ma non doveva essere una gara in piano?”
Niente, i primi 20 minuti sono un continuo saliscendi, poi finalmente mi posso regolarizzare sul mio passo che tengo senza sforzo.
Se non fosse che mi superano tutti, da quelli che si sentono arrivare da lontano per via delle ruote lenticolari e che fanno un rumore da aeroplano, a quelli con fiammanti bici da crono che mi sfilano via come missili a mezzo metro di distanza, passando a quelli che arrancano, ma vanno comunque più veloci di me.
Il vero sforzo è mettere da parte l’orgoglio e non accettare la sfida di tutti quelli che mi sorpassano, quindi cerco di isolarmi: testa bassa, ritmo regolare, respirazione controllata e al massimo mi godo il paesaggio, pedalando lungo la costa, con il mare come unico compagno di viaggio.
Sono certo che sia la strategia giusta, anche perché in allenamento non ho mai fatto più di 120 chilometri e non so cosa mi aspetti oltre quella distanza, un po’ come il livello di un videogioco mai raggiunto prima.
Le ore passano veloci e i chilometri scorrono sotto le ruote: tra qualche deviazione nell’interno, giri di boe, altre salite e discese mi ritrovo di nuovo a Calella, dove gli spettatori si accalcano ai lati della strada, con la loro massima concentrazione attorno alla rotonda che decreta la fine del primo giro da 90 chilometri e l’inizio del secondo. Ed è qui che decido di scatenare un po’ di casino: rallento, giro largo e aizzo la folla urlando e agitando la mano: sembra quasi una ola da stadio!
Riattacco la prima salita, sempre con moderazione e controllo il tempo: 2 ore e 50 minuti in bici, “Dai, non male” penso soddisfatto.
Ora conosco il tracciato quindi so cosa aspettarmi: tra le salite, sempre da fare senza forzare, le relative discese, in cui spingere forte per i primi metri e sfruttare la gravità per tutto il resto, mi trovo a “passare il livello del videogioco” quando vedo scattare sul Garmin i 120 chilometri.
Nell’ora successiva mangio un altro panino con il prosciutto e il formaggio, poi una barretta e poi un gel, alternando sorsate dalla borraccia con acqua e maltodestrine, mentre scorrono i chilometri e sempre meno persone mi sorpassano.
Mi comincia a far male il sedere, ma sono in sella da stamattina e penso sia normale.
Mi comincia a far male la schiena, ma sono in posizione crono da 5 ore e penso sia normale.
Mi comincia a far male un ginocchio, ma ho fatto 160 chilometri a 31 km/h e penso sia normale.
Quindi stringo i denti e smetto di pensare ai dolorini, che tanto mancano solo 20 km!
Non mi accorgo quasi di essere di nuovo a Calella e dopo l’ultima salita mi ritrovo alla rotonda del primo giro di boa dove stavolta posso sfilare diritto per imboccare le strette stradine del paese ora gremito di pubblico urlante, tra cui riconosco la voce della Cri che mi urla “Vai Simoooo”.
Mentre mi avvicino alla zona cambio non mi sembra vero di aver fatto 180 chilometri! Quando smonto dalla sella vedo 5 ore 44 minuti sul Garmin prima di premere “lap” e decretare la fine della frazione bike e l’inizio della T2.
Appena sceso dalla bici agguanto la sella per spingerla correndo, ma non ci riesco: le gambe sembrano di legno, faticano a muoversi e mi è praticamente impossibile correre. “Vabbè, cammino, non è mica un disonore” penso per giustificare l’incapacità di comandare alle mie gambe dei movimenti base come la corsa.
Raggiungo la rastrelliera con il mio numero, dove aggancio la sella della mia vecchia Cannondale nera e la ringrazio per avermi egregiamente supportato anche in questa avventura.
Sto per salutarla quando mi viene in mente che devo seguire il consiglio della mia amica Myriam, infermiera trail runner con cui ho fatto la LUT120 l’anno scorso: “A metà gara prendi una pastiglia di Ibuprofene 600, vedrai che correrai tutta la maratona senza problemi”.
Sfrutto l’ultimo sorso di liquido nella borraccia per assumere la medicina magica che tenevo nel portagel e via di corsa (si fa per dire!) verso le mie sacchettine per il cambio.
Come nel T1 riproduco una sequenza di azioni che avevo visualizzato nell’allenamento mentale e in poco più di 5 minuti sono pronto per iniziare la temuta maratona.
Mi aspettano 42 chilometri di corsa: “Sono tantissimi!”
Se nella frazione di bici la strategia imposta dal coach era di seguire il cuore, tenendo d’occhio i battiti, per la maratona devo considerare il passo, correndo tra i 6’13” e i 6’55” al chilometro, con una durata totale prevista di 4 ore e 38 minuti: “prima ho lavorato con il cuore, ora devo lavorare con la testa!”
L’unico modo che ho studiato per affrontare mentalmente tutti questi chilometri senza mollare è dividerli in tratti più corti. “Innanzitutto sono 3 giri di un percorso ad anello di circa 14 chilometri, quindi cominciamo a pensare un giro alla volta, visto che 14 chilometri non fanno paura. Poi ci sono tanti ristori, grossomodo ogni 2 chilometri e mezzo…” e mentre sono assorto a fare questi ragionamenti mi trovo davanti al primo ristoro, dopo nemmeno un chilometro dalla partenza. La cosa mi destabilizza un attimo visto che non corrisponde ai miei calcoli, ma ne approfitto per bere, allacciare meglio le scarpe e ripartire.
Il primo tratto è lungo una strada transennata, dove tanti spettatori si sporgono per vedere il passaggio dei loro amici o parenti in gara ed incitarli e dove i bambini sporgono le braccia aprendo la mano alla ricerca di un batticinque degli atleti che stanno correndo. Decido che darò il 5 a tutte le manine che mi si pareranno davanti, immaginando che siano le mani di Agata che mi grida “Forza papà!”
Dopo circa 2 chilometri il percorso prima passa dietro agli spalti dove c’è l’arrivo e poi, con mio enorme stupore, entra direttamente tra gli spalti, accanto al corridoio con il tappeto rosso che porta alla finish line, dove il pubblico sta già aspettando l’arrivo del vincitore.
Ritorno sul lungomare, dove il fondo stradale è un brecciolino potenzialmente insidioso, e continuo a passo lento e costante, con tanti atleti che mi sorpassano, probabilmente già al loro secondo o terzo giro. La noia dei lunghi tratti rettilinei è spezzata non solo dai frequenti ristori dove vado di coca, arancia o banana, ma anche dai capannelli di tifosi organizzati con stereo e musica a palla, o con strumenti musicali più o meno improvvisati.
A parte i ripidi sottopassi spaccagambe, l’ingresso nel campo di calcio con erba sintetica della zona cambio e un noioso passaggio in un’area poco turistica, il percorso è appagante, in particolare nel tratto del lungo vicolo che porta avanti e indietro nel cuore di Calella: qui il tifo si fa sentire mentre si corre tutti piuttosto vicini.
Nel giro di un’ora e un quarto il primo giro è completato, ma aspetto il passaggio dagli spalti per poter pensare “ora ne mancano solo due!”
Qui mi concentro sul bivio che a destra porta al traguardo e a sinistra al giro di boa accanto all’arco gonfiabile dove leggo i nomi e i tempi dei concorrenti che stanno arrivando, accolti dagli speaker che urlano il loro nome seguito da “you are an Ironman!”
Ovviamente non vedo l’ora di sentire il mio nome seguito da quella mitica frase di consacrazione, perciò vivo questa scena come sprone per continuare senza dare ascolto alla fatica che comincia a farsi sentire.
Nel tratto più lontano e noioso noto sul garmin che ho passato i 21 chilometri: “Sono a metà della maratona, chissà da quanto tempo sto gareggiando?” Sull’orologio ho sempre guardato il quadrante con il tempo della frazione in corso, mai il totale accumulato dall’inizio, ma adesso mi lascio tentare dalla curiosità: 9 ore e 15 minuti.
Faccio un rapido calcolo pensando: “Cioè, se riuscissi a correre la mezza maratona che manca in 2 ore, potrei chiudere il mio primo Ironman in 11 ore e un quarto?!”
Mantenendo questo ritmo sarebbe fattibile, quindi mi aggancio a questo pensiero per restare concentrato sull’obiettivo.
Fino ad ora non ho ancora incrociato i miei compagni di squadra, per cui cerco tra gli atleti che corrono in direzione opposta alla mia se vedo qualcuno. Ci vuole un po’ prima di poter identificare prima il Pado, a cui urlo “Vai Angelo!” e poi Kru, a cui grido un “Ce la faremooo!” di covidiana memoria.
Max invece non riesco proprio a trovarlo.
Vorrei incontrare il Coach5, per fargli sapere che sta andando tutto bene e di comunicarlo anche Gisella: finalmente eccolo, nel lungo vicolo di Calella che si sbraccia per farsi notare.
Mi fermo qualche secondo, con un sorriso ebete e vengo ricambiato con il suo “Bravo! Stai andando alla grande! Ora vai, continua così.”
Riparto, riprendo il mio ritmo e mi salgono le lacrime agli occhi. Le ricaccio indietro: “Non è questo il momento di commuoversi, la gara è ancora lunga!”
Sto per completare il secondo giro, rientrando verso il passaggio che costeggia la zona cambio quando non mi accorgo di un dislivello sul brecciolino e per via del passo ormai stanco e trascinato inciampo, cadendo per terra rovinosamente.
Mi grattuggio le mani e un ginocchio e mi impano braccia e gambe, perché i sassolini si attaccano meravigliosamente sul corpo fradicio di sudore.
Mi rialzo un po’ imbarazzato tra concorrenti che mi passano accanto, qualcuno che mi offre una mano e mi chiede se è tutto ok. Vorrei dirgli: “Nessun problema, sono abituato a cadere nelle gare” e pensando a tutti i voli che ho fatto nei trail in montagna, riprendo a correre dolorante fino alle fontanelle in prossimità di un ristoro dove provo a ripulirmi dei sassolini, bagnandomi completamente.
Anche il secondo girò è passato e per ogni punto interessante che incontro penso “Vai, che questo è l’ultima volta che lo vedo!”
Ad ogni ristoro però mi fermo, prendo da bere e da mangiare, cammino e solo poi riparto: mi rendo conto che non riesco più a tenere il passo definito dal coach, ma nonostante l’alimentazione le energie si stanno lentamente esaurendo.
“Dai mancano solo 10 chilometri”
“Forza ne mancano solo 7, è quasi finita!”
“Vai, resisti ancora 5 chilometri, sono pochissimi”
Non so se questi messaggi me li manda la mia testa o arrivano da chi mi sta facendo il tifo da casa, sta di fatto che manca davvero poco quando, sempre nel vicolo centrale di Calella, comincio a sentire il sopraggiungere dei crampi.
Stringo i denti, ma il polpaccio comincia a strattonare, avvisaglia che il crampo partirà tra pochissimo.
Mi fermo, salgo sul marciapiede in prossimità di un cassonetto dove provo a stirare la gamba sinistra e senza accorgermene emetto un urlo di dolore probabilmente accompagnato da una smorfia pietosa perché il crampo si è esteso al grosso bicipite femorale.
Dal nulla sbuca un ragazzo spagnolo che mi invita a sdraiarmi e mi solleva la gamba che cercavo inutilmente di massaggiarmi: mi fa capire di essere un fisioterapista e che ora ci pensa lui.
“Mamma mi ha mandato tu quest’angelo dal cielo?” penso guardandolo mentre compie delle strane manovre con la mia gamba. Come risposta alla mia silenziosa domanda mi strizza l’occhio e continua.
Il primo tentativo di alzarmi in piedi fallisce, il crampo riparte, perciò di nuovo a terra e altre manovre. Dopo 4 minuti di trattamento mi tira sù e mi invita a saltare perché questo movimento farà bene a tutto il corpo: eseguo l’ordine un po’ titubante e timoroso, ma funziona!
Le gambe sono di nuovo attive e senza dolori, perciò corricchio fino all’inversione a U a qualche centinaio di metri in corrispondenza del ristoro. Mangio, bevo e riparto, provo a saltellare e poi a correre: ripasso accanto al punto dove prima ero sdraiato morente e rivedo il mio salvatore che mi saluta orgoglioso e soddisfatto di avermi aggiustato.
Ora mi sembra di volare, tanto che supero alcuni concorrenti, certo di poter fare bene gli ultimi pochi chilometri.
Nel passaggio esterno alla zona di arrivo sento gli speaker che accolgono in fitta sequenza i concorrenti che stanno tagliando il traguardo con il mantra “You are an Ironman” e mi sale la commozione: ”Ancora 500 metri e sarà il mio turno! Ce l’ho fatta davvero.”
Poco prima dell’imbocco del tanto agognato bivio che porta al tappeto rosso sento il Coach5 e Andrea che mi urlano e poi vedo che documentano con il cellulare il mio passaggio: alzo le braccia al cielo sfoderando il migliore dei miei sorrisi mentre procedo correndo verso la finish line.
L’ingresso tra gli spalti ora è da protagonista, mi fermo a suonare energicamente la campana, azione concessa a chi finisce una gara Ironman per la prima volta e poi riparto esultante per gli ultimi metri di gloria, mentre la voce dello speaker mi travolge urlando:
Un ragazzo mi mette al collo la grossa medaglia targata Ironman Calella Barcelona e mi fa i complimenti mentre l’adrenalina lascia velocemente il posto alle lacrime che mi riempiono gli occhi e il fiatone si trasforma in un singhiozzo che mi fa sobbalzare il petto: non ho il controllo di questa emozione e per riprendermi vado a sedermi a terra nel fondo del quadrato d’arrivo.
Da questa posizione ho una visuale perfetta degli atleti che si susseguono al traguardo, ciascuno con la propria dimostrazione di esultanza, dalle semplici braccia al cielo, passando per salti e addirittura uno che attraversa la finish line camminando sulle mani!
Il mio pianto finalmente si trasforma in soddisfazione: ho iniziato a fare triathlon dieci anni fa e questa gara è il coronamento di un sogno.
Ringrazio mia moglie Gisella, per avermi consentito di intraprendere questo viaggio solitario che ha tolto tanto tempo alla nostra famiglia.
Ringrazio mia figlia Agata, che probabilmente ora non capisce il perché di queste imprese, ma forse un giorno la potranno ispirare.
Ringrazio mia mamma Francy, che mi ha seguito dall’alto per tutto il tempo, palesandosi sotto forma di energia, di positività e di supporto nei momenti di bisogno.
Ringrazio il mio coach Giovanni Cinque, per la sua dedizione: “Coach5, sono felice di averti felicemente stupito facendo 22 minuti in meno del tuo pronostico!”
Ringrazio il mio compagno di squadra Giovanni Ruscio per il viaggio in macchina e i quattro giorni insieme: “Kru, sei un amico di avventure top, ce l’abbiamo fatta e ora possiamo dirci Ironmeeeeen!”
Ringrazio il mio compagno di squadra Marco Maghini per il supporto e i suggerimenti: “Grazie Mago, avrei voluto averti accanto alla partenza, per bastonarti nel nuoto e farmi prendere a schiaffi per tutto il resto della gara!”
Ringrazio tutta la mia squadra SGM Triathlon per il tifo fatto su whatsapp: “Rileggere i vostri 300 messaggi la sera dopo la gara mi ha dato una botta di adrenalina che non riuscivo più ad addormentarmi!”