Non c’è due senza tri
Triathlon Olimpico Bardolino 2017
L’originale di questo articolo è stato postato dell’autore, Anna Carlomagno, nel gruppo Facebook di RunLovers. Anna lo ha gentilmente concesso a VunDuTri per consentirne la diffusione e la conservazione.
Non c’è pronti, attenti, via.
Non c’è 3,2,1.
C’è solo una sirena da stadio.
Dopodiché hanno inizio le profonde domande esistenziali e soprattutto LA domanda:
Iniziamo.
Una tonnara. Mi defilo in seconda linea prima del via, tengo la destra, come se fossi in coda in A1 e dovessi tenermi un’uscita d’emergenza. Parto piano, cerco il mio ritmo. Lotto con qualcuno che mi si aggrappa al posteriore, scalcio come un mulo.
Cosa diceva Robi? Il mento, il sedere, no, la gambata, uno, due, uno, due, respira, ricorda di guardare davanti ogni tanto, spinta, recupero, aggancio, merda, la traiettoria è sbagliata, rientra. Ricomincia.
Riesco a entrare nella scia di qualcuno e lo seguo. Mi incollo ai suoi piedi come una cozza agli scogli. Ma aspetta. Ne ho di più, posso spostarmi, posso passarlo, lo vedo scorrere. Vai! Ne ho superato uno.
Come traguardo oggi potrebbe anche bastare.
Arriva la seconda boa, la prendo troppo larga, metri su metri di fatica. Quello che avevo passato la prende stretta, mi passa all’interno. Uff. Ma quanto manca? Oddio, ancora una boa? Siamo sicuri che siano solo 750 metri? Sembrava più breve sulla mappa.
Creiamo il nostro gruppetto: io, dietro a una che scalcia forte; il tipo sorpassato, me lo tengo sulla destra e lo osservo a ogni respiro, e un matto che nuota a rana sulla sinistra. Mi piace il mio gruppetto e me lo tengo stretto, lotterò con i denti e con le unghie se qualcuno volesse portarmelo via. Vado con loro. Mi portano alla fine, fino in spiaggia.
Riesco a togliermi metà della muta correndo, senza inciampare e possibilmente senza sembrare sbronza. Corro, corro, corro sul tappeto azzurro. Freno, torno indietro, ops, la mia bici è qua.
Il chip alla caviglia si incastra nella muta, ora sì che mi sento ubriaca. Mi siedo, sfilo un piede, poi l’altro. Mi rialzo.
Borotalco nelle scarpe da ciclismo, meravigliosa trovata, bravo chi ci ha pensato. Brava mamma che si è guardata qualche mondiale di triathlon su youtube e ha condiviso questa perla con me.
Casco, il casco, metti il casco prima anche solo di toccare la bici con un dito. Click.
Il dorsale. Click.
Afferro la vecchia alan per il collo e intanto penso, ma davvero devo correre? Ci metto una ventina di metri a decidere che, sí, vale la pena correre fuori dalla zona cambio.
Aggancio i pedali, e via come una lenta brezza mattutina.
E meno male che ho messo sul 42, cosa sono ‘ste gambe di legno? E perché mi bruciano i polmoni?
L’organizzazione diceva percorso pianeggiante.
No.
Questa non è pianura. Questo è un su e giù continuo, una montagna russa, una nauseantissima montagna russa.
Sto male. Voglio vomitare, respiro male e i pedali sono duri da tirar giù.
“Ma c’è qualcuno dietro di me?” mi chiedo. “Ma quelli davanti? Perché non vedo nessuno?”
Ah, aspetta, rumore di catena. Chi c’è? Chi arriva?
Eccola, una ciucciaruota di rosa vestita. Si piazza dietro di me e sta.
Mmmh, mi interrogo sul da farsi. E decido che no, oggi nessuno ciuccerà la mia ruota.
(Non perché sia estremamente veloce, sia chiaro. Più per una questione di caparbietà).
Accelero, ma mi sta dietro. E io non ce la sto facendo più.
Allora rallento, accosto e la lascio passare.
Lei passa e io mi incollo alla sua, di ruota, cercando di ritrovare il fiato e recuperare le forze.
Smanetta con il cambio, va su, va giù e si pianta a 23km/h.
Al che penso: “no, così non mi serve”.
Infilo il rapporto lungo, spingo sui pedali. Penso ad Alba, la fisioterapista, che mi dice sempre “Usi troppo i quadricipiti, coinvolgi di più i glutei!”.
Alba, per seminare la ragazza color di rosa ti assicuro che ho usato ogni fibra muscolare esistente nelle gambe!
Affronto il saliscendi ormai con rassegnazione.
Ultima salita ammazzagambe del primo circuito, sento che spiana, allegerisco sui pedali, torno sul 53 e claclangclang: giù la catena.
4 paternoster e sgancio i pedali, scavallo, ritiro su la catena, rimonto in sella, riparto. Adesso sì che l’umore è a terra.
Vecchietti in panciolle mi urlano “Forza!” alle rotonde, alle curve.
Passo il tempo del secondo circuito a trovare una scusa per fermarmi: il mal di stomaco, il freddo, i brividi, ma forse il caldo, ma poi cosa dirò, ma che mi inventerò.
Il momento di imboccare la discesa verso la zona cambio me lo ricorderò come un attimo in cui è calato il più assoluto silenzio: il mio sguardo fisso al centro della strada, il vento fresco in faccia e all’improvviso..
Un ronzio.
Forte, sempre più forte, come un immenso sciame di api, o cavallette, o mostri fantascientifici.
Mi metto un po’ più a destra, che non si sa mai, la sicurezza prima di tutto.
Il ronzio è frastornante, lo sciame mi è ormai addosso. E mi sorpassa veloce come un fischio. Una decina di machoman grossi e urlanti che si buttano giù ai 60 all’ora.
Per fortuna che per regolamento le donne non possono tenere la scia degli uomini, sennò questi erano fregati!
Me la prendo con la più assoluta calma.
La verve.
Passeggio fino a trovare il mio posto, parcheggio la vecchia alan probabilmente stremata.
Non ricordo di essermi tolta gli scarpini, ma ho corso con le scarpe giuste, quindi ci dev’essere stato un cambio.
Ricordo di togliere il casco, per non essere oggetto delle barzellette dei prossimi vent’anni. Un altro sorso d’acqua, perché no.
Ah. E il cappello non te lo metti? Copri la sofferenza, fai sembrare di essere fresca come una rosa. Fresca come Lucy Charles Barcley al 40esimo km di maratona la settimana dopo un iron-man.
Ah beh, non male, dai, pensavo peggio.
Un passo dopo l’altro, meno male è tutto in piano.
Cos’è questo dolorino dietro al ginocchio? Sarà normale? Come diceva Big Sandro? Primo km con assoluta calma. Calma e rispetto, calma e rispetto.
Oh merda. Il fotografo. Respira piano, corri dritta, controlla i piedi a papera, respira dal naso, chiudi la bocca. Uff, passato.
Il fiato regge, le gambe insomma. Primo chilometro e mezzo, guardo l’orologio, sono passati 8 minuti. Lì per lì mi complimento pure con me stessa. Inizio a non capirci niente.
I polpacci iniziano a bruciare, il mal di stomaco non mi molla.
Trovo un che di rassicurante nell’ascoltare il suono dei miei passi sullo sterrato, cosa che in allenamento non riuscivo a sopportare.
Mi sorprendo di quanto io stia continuando a respirare bene: il fiato c’è, non mi abbandona.
Le gambe insomma, un po’ meno. La forma poi, inesistente.
A partire dal terzo chilometro entro in blackout. Non penso più, non vedo più, corro e basta. Credo di essere riuscita ad accelerare il passo, ma sono rimasta in una sorta di mondo parallelo fino a quando ho visto l’ultimo cono del percorso.
In quel momento ho capito che potevo farcela davvero. Mi mancavano solo 20 metri per tagliare il traguardo.
Il chip registra il mio arrivo.
Continuo a camminare, ho paura che fermandomi qualcosa di molto brutto possa succedere.
Inizio a singhiozzare, di fatica, di gioia, di incredulità, sono stremata.
Mi siedo lenta e dolorante.
Chiedo dell’acqua e penso:
“Anni spesi dietro bacco e tabacco.
1 anno di nuove scelte, nuove abitudini.
8 settimane di allenamento.
1 ora 33 minuti e 54 secondi.
Un’ora e mezzo di sofferenza fisica e mentale.
Un’ora e mezzo in cui tu cerchi di controllare la tua stessa mente affinché Lei abbia il controllo sul tuo corpo.
Un’ora e mezzo di determinazione e fatica.
Un’ora e mezzo a pensare a tutti i coglioni che nella vita mi hanno detto che è inutile fingere di essere tosta, perché non lo sono affatto.
Un’ora e mezzo che per molti non vorrà dire niente, ma a me ha insegnato che dipende solo da me: sono io a scegliere se farcela o meno. Nello sport e nella vita.
Un’ora e mezzo che mi dà la grinta per scegliere il mio prossimo obiettivo, la mia prossima sfida.
Un’ora e mezzo che non vedo l’ora si ripeta!!“