Le emozioni di una gara di trail running
Piccolo resoconto della mia UTLAC 30 2022
Sono le 5.59, manca 1 minuto allo start del Trail del Marchesato: il buio della piazza è attraversato da 120 frontali pronte a guizzare mentre i Beastie Boys incitano i trail runner con “You gotta fight for your right to party”
Ultimi saluti, foto e in bocca al lupo tra i compagni di 100% Anima Trail che affrontano con me questa avventura.
È la prima volta che corro un trail al buio: finché attraversiamo le viuzze di Finalborgo nessun problema, ma appena si imbocca il primo sterrato mi rendo conto che la mia lampada non regge il confronto con quelle professionali di tutti gli altri. I 600 lumen di quello dietro di me proiettano la mia ombra nera davanti ai miei piedi e non riesco a vedere dove appoggerò il passo successivo.
Urge comprare una frontale “come si deve” in vista della gara obiettivo dell’anno: la LUT120 infatti parte alle 23.00.
Le cose si complicano quando dallo sterrato si comincia a risalire la prima montagna su sentieri di rocce sconnesse e radici: la notte non vuole lasciare il posto al giorno e io continuo con appoggi incerti e misurati mentre vengo superato dai tanti più agili e sicuri.
Dopo un’ora così, raggiunta la vetta, finalmente l’alba si fa lentamente strada e il sole fa capolino dietro altre montagne: è sufficiente per illuminare i sentieri, ma non ancora abbastanza per riscaldarmi durante la ripida discesa.
Il tracciato è un continuo susseguirsi di salite brevi, ma spesso tecniche o ripide, e di discese nervose: un sali e scendi senza tregua. Le gambe reggono e i chilometri passano, tra boschi e coste rocciose finché il percorso si avvicina alla costa e offre suggestivi scorci di mare che meritano una breve sosta per immortalare il paesaggio e il momento.
Eccolo là, due concorrenti e 200 metri più avanti: Andrea che si era dileguato alla partenza. Lo metto nel mirino e nel giro di un paio di chilometri lo raggiungo e mi accodo a lui: ci facciamo forza a vicenda e ci alterniamo, finché in un tratto pianeggiante allungo il passo e lo stacco.
Ingurgito alimenti a caso raccogliendoli dai vassoi a manciate: mezza banana, due pezzetti di parmigiano, una manciata di frutta secca, qualche cubetto di mortadella, una fettina d’arancia e un bicchiere di Coca Cola per sgorgare tutto.
Mi raggiunge Andrea, giusto il tempo per un saluto e riparto con il pieno di nuove energie, con la consapevolezza che non basteranno per raggiungere il ristoro successivo, al 40°, ma sufficienti per affrontare i 3 km di salita che porta al punto più alto del tracciato e i successivi 5 km di discesa, in buona parte trascorsi in solitaria.
Gli ultimi chilometri prima del ristoro sono un continuo su e giù nervosi che affronto insieme ad concorrente con cui scambio quattro chiacchiere: sta preparando per la seconda volta il TOR de Geants. Ecco, mi sento piccolissimo e sarà il senso di inadeguatezza, o forse solo il mal di gambe, ma non riesco a stargli dietro.
Il rituale si ripete (banana, parmigiano, arancia e mortadella), ma in più questo ristoro offre anche il brodino! A parte il doverlo bere bollente nel mio bicchierino di plastica portatile, è un toccasana.
E si riparte.
Ovviamente in salita, verso il passaggio in grotta per il quale tutti sono stati messi in guardia. Questa parte di gara la passo con una trail runner di Modena, che sta facendo la versione “corta” da 38km, alternandoci e “tirandoci” a vicenda.
Il tracciato passa vicino a falesie e alte pareti rocciose dove si incrociano climbers in cerca della loro via.
Prima dell’imbocco della grotta uno dei tanti volontari disposti lungo i 60 km ci intima di indossare la frontale, obbligatoria per affrontare il buio pesto della grotta.
Non riesco a stare alle calcagna di un concorrente con una forte luce sulla testa per poter sfruttare anche io un po’ dei suoi lumen, così quando mi addentro nella grotta non vedo assolutamente nulla.
La luce della mia torcia non raggiunge nemmeno il suolo e sono costretto a tenerla in mano per avvicinarla ai piedi, in una situazione surreale e di disagio, dove devo scavalcare massi polverosi e sconnessi, con un vento freddo che mi gela il sudore sulla schiena.
Finalmente la luce dell’uscita fa capolino 20 metri più in basso, ma ora è tutto in controluce e, accecato dai raggi del sole, la torcia non mi serve proprio più a niente.
Dopo un tempo che mi è sembrato infinito sono finalmente fuori e tiro un sospiro di sollievo: ecco, la speleologia non fa per me.
Mi giro per un ultimo sguardo all’uscita della grotta e una piccola luce rimbalza verso di me: la scena merita una foto!
Guardo il Garmin: 42km.. bhe, sarebbe un ottimo finale per una maratona! Però questa è un’ultra maratona, quindi testa bassa e via andare.
I chilometri si susseguono lenti, alcuni percorsi in solitaria con l’accortezza di cercare sempre le balise gialle de La Sportiva ad indicarmi la strada giusta nel dedalo di sentieri che solcano queste montagne, altri chilometri in compagnia della ragazza di Modena, capace di spronarmi nei tratti corribili tra gli uliveti e i frutteti liguri.
Quando il tracciato esce dai sentieri e raggiunge i paesini faccio “girare” le gambe sull’asfalto: i quadricipiti fanno meno male e non rischio di inciampare sui sassi.
La consapevolezza che mancano solo 10 chilometri mi fa sopportare fatica e stanchezza, ma cosa dovrò ancora affrontare? L’altimetria stampata sul pettorale non promette bene con quel profilo tutto frastagliato, ma almeno vedo che all’ultimo ristoro manca poco.
Sono di nuovo da solo.
“Chi mi diceva superare l’ha già fatto, chi potevo superare l’ho già superato”
Non faccio in tempo a terminare questo pensiero che un paio di concorrenti mi sopraggiungono con passo più sicuro del mio sulla discesa. Provo a tenere il loro ritmo, ma duro poco, anche perché ho paura che un passo falso o il cedimento di qualche muscolo mi faccia raggiungere il suolo con la faccia. A dar ragione a questa mia prudenza è l’incontro con un trail runner appoggiato ad una roccia a lato del sentiero: ha la fronte e le ginocchia insanguinate per una brutta caduta.
Chiedo se ha bisogno, ma mi dice di aver già chiamato i soccorsi per farsi venire a prendere, quindi continuo a correre, pensando a come possano fare a raggiungerlo lì, nel niente.
Supero in discesa un concorrente che mi aveva lasciato indietro sulla salita precedente:
“Ho già marcato i 53, ma non doveva esserci un ristoro?” mi chiede.
“Se non ho un miraggio è quel gazebo là in fondo”
Mi prendo il tempo per mangiare, bere, riempire la borraccia e sciogliere un po’ i muscoli.
Nel frattempo arriva la ragazza di Modena e ripartiamo insieme per l’ultima salita tosta, verso la croce: 20 minuti per fare meno di un chilometro, pendenze oltre il 30% e tratti con corde e catene.
Arrivati alla croce ci prendiamo un attimo per tirare il fiato, ammirare il paesaggio e farci alcune foto a vicenda.
Via, di nuovo in discesa, che da tecnica e sconnessa, pertanto lenta e faticosa, diventa più docile e battuta, quindi veloce e corribile.
Sono al 55° km e ne mancano solo 5: corro da 9 ore e mezzo, se il tracciato rimane così e se riuscissi a tenere questo ritmo potrei chiuderla sotto le 10 ore, come da obiettivo iniziale.
Non faccio in tempo a terminare questo pensiero che una ragazza dell’organizzazione seduta su un muretto interrompe la mia discesa e le mie speranze: “Su di qua!”
“Sei antipatica!”
Le sorrido e imbocco l’ultima salita. Addio obiettivo. Ora che raggiungo il punto più alto e mi ributto in discesa scattano le 10 ore di gara, ma ormai mancano solo 3 chilometri al traguardo e riconosco il sentiero fatto all’andata con il buio.
Oh no! Un altro volontario mi si para davanti
“Su di qua, verso il castello!”
“Ma come?!”
“Dai questa è davvero l’ultima salita!”
“Giuro che se non è vero torno indietro e ti picchio!”
Ride: “Promesso, è l’ultima. Vai che sei arrivato!”
Ancora tratti con corde e catene per superare massi e dislivello, ma il castello meritava la deviazione e anche una foto, che si propone di farmi un ragazzo volontario vedendomi armeggiare con lo smartphone.
“E ora vai, si scende per 2 km!” mi incita.
Sono passate le quattro del pomeriggio mentre percorro la sinuosa strada acciotolata che congiunge il castello a Finalborgo, incrociando qualche turista che arranca sudato in senso contrario al mio.
Sento la voce dello speaker e la musica che si alzano dalla piazza principale mentre raggiungo i vicoli che si affollano di persone. Alcuni sono concorrenti che hanno già finito e mi incitano, mentre faccio lo slalom tra i turisti in direzione del traguardo.
Passo sotto l’arco della piazza con il gonfiabile de La Sportiva e finalmente attraverso il tanto agoniato traguardo, senza la forza per fare il mio salto celebrativo, ma con i pugni alzati al cielo.
Stoppo il Garmin: 60,00 km, 10 ore e 25 minuti mentre la voce di mia mamma risuona nella mente
“Tu sei matto!”