Esco dal mare, rimetto lo zaino idrico e do una bella sorsata, sentendo il tipico gorgoglio che presagisce la fine dell’acqua: “oh cazzo!”. Riprendo a correre scalzo sulla sabbia con le scarpe in mano per coprire la distanza fino alla fine della spiaggia dove spero di trovare alcuni scogli su cui sedermi, lavare i piedi dei granelli di sabbia e rimettere calze e scarpe.
Così è, ma intanto il tempo passa e quando mi rimetto in moto sono nel punto opposto della spiaggia rispetto a quello da cui sono arrivato, quindi rifare la strada che passa dall’interno è escluso: il cartello che avevo visto a Lotu riportava 1h15m di cammino, ma io ce ne metterò certamente meno e poi correrò sulla litoranea, che sicuramente è più bella.
In effetti il panorama è splendido, ora il mare ce l’ho a sinistra, alcuni tratti li corro balzando tra rocce e scogli levigati dal tempo e dal mare, altri su sabbia tra cespugli seccati dal sole, altri su strapiombi che costeggiano deliziose calette.
La strada verso l’inferno
In circa 25 minuti mi ritrovo all’imbocco della Plage du Lotu, che nel frattempo si sta popolando di bagnanti; mi rendo conto che sto facendo molta più fatica di prima a correre sulla sabbia per cui ritengo sia il momento giusto per assumere il gel energetico, accompagnandolo con un pò d’acqua: per fortuna il gel della SIS è molto liquido e va giù bene perché l’acqua della sacca idrica è drasticamente terminata. Cerco di non farmi prendere dal panico, anche se sento che la temperatura comincia salire e con essa l’arsura.
Percorro a fatica il tratto successivo e mi rendo conto che il ritmo sta calando: ho sete, ho fame, corro da 3 ore, sono solo al 23° chilometro e sto entrando in disidratazione.
Quando arrivo a le Petit Lotu vedo una signora in topless sul bagnasciuga col marito che avvicina un gommone a riva e mi dirigo verso di loro. In un pessimo francese, affannato e con la bocca riarsa provo a chiedere “de l’eau, si vous plait”.
La signora deve aver visto il panico nei miei occhi e subito attiva il marito: “Caro prendi la bottiglia dell’acqua dal gavone che questo ragazzo ha sete!”
Mi spertico nel ringraziarla, ovviamente in italiano.
Gentilissimo, il signore, con uno spiccato accento ligure, mi chiede da dove arrivo mentre mi versa l’acqua in un minuscolo bicchierino da caffè. Gli spiego il giro che ho fatto e che devo fare mentre riempie altri 4 bicchierini che trangugio senza sosta; lui mi racconta che conosce bene il percorso e che lo ha fatto varie volte, ma mai di corsa, e che c’è una sorgiva d’acqua fresca poco distante, ma non si ricorda esattamente dove.
Nel frattempo la signora mi omaggia di una bottiglietta d’acqua da mezzo litro che, ringraziando, travaso nella sacca idrica prima di ripartire con ritrovata energia.
Energia che però dura poco: il rischio disidratazione è scampato, ma ora mi rendo conto che sono entrato pienamente in crisi di fame. Le gambe non ne vogliono sapere di correre e mi ritrovo a camminare non solo su punti in salita, ma anche in piano, mentre la testa fatica a stare concentrata sul percorso, lasciando entrare i pensieri cattivi su quanto di peggio potrebbe succedermi.
Raggiungo in un tempo che mi sembra infinito il punto dove avevo salutato il secondo runner che mi aveva fatto compagnia per un pezzo e proprio lì arriva in senso opposto una trail runner che mi saluta e saltella via. Vorrei fare altrettanto, ma sento le gambe di piombo e affronto la successiva discesa con calma e concentrazione: sono già inciampato in un paio di rocce su tratti in piano, vorrei evitare di fare altrettanto in discesa col rischio di rompermi qualche osso.
Sono in giro da tre ore e mezza e ho fatto 25 chilometri e me ne mancheranno altri 10, mi sento in colpa nei confronti di mia moglie che probabilmente mi sta aspettando preoccupata pertanto le mando un sms con la speranza che abbia il telefono con sé e possa leggerlo: i piani erano di lasciare il campeggio entro le 12 per spostarci a Calvi, ma di questo passo non arriverò mai in tempo.
Il caldo sta diventando asfissiante nei punti più esposti, ci saranno almeno 35°C e quando arrivo alla spiaggia del Fiume Santo sono felice di doverlo guadare pregustandone il refrigerio.
Non fa niente se tutta l’operazione, tra togliere scarpe e calze, attraversare il fiume, correre la spiaggetta scalzo fino agli scogli successivi, rimettere calze e scarpe, mi fa perdere tempo: riparto e il Garmin mi avvisa che anche il 26° chilometro l’ho percorso in 11 minuti. Me ne vergogno, ma continuo, prendendo una deviazione che mi allontana dalla costa, nella speranza di tagliare, ma che mi costringe a nuove salite e discese rispetto all’andata sotto un sole sempre più cocente.
Quando sbuco sulla spiaggia successiva sento l’esigenza di bagnarmi il capo, quindi mi avvicino al bagnasciuga: come mi abbasso per raccogliere l’acqua del mare i piedi sprofondano nella sabbia bagnata, un’onda li raggiunge e le scarpe si inzuppano… ci mancava solo questo.
La mia reattività è prossima allo zero e devo raschiare sul fondo per cercare forze che non ho.
Mi vengono in soccorso alcuni passi del libro “Perseverare è Umano” di Pietro Trabucchi che sto leggendo in questa vacanza; “motivazione, resilienza e autoefficacia”: con questo mantra passano altri chilometri, ma non guardo più i dati di velocità e tempo del Fenix 3 per non demotivarmi, impostandolo in modalità “traccia GPS” così da vedere quanto manca al ricongiungimento con il sentiero dell’andata e all’arrivo.
Al trentesimo chilometro mi si presenta un bivio: sentiero litorale, che non conosco, o quello verso l’interno? Uso la poca lucidità che mi rimane per fare la scelta più “comoda”.
Lascio il mare e taglio a destra, su un ponticello di legno dove incrocio dei ragazzi in tenuta da mare con zaini sulle spalle e bottiglie d’acqua in mano: vorrei chieder loro se hanno qualcosa da mangiare da offrirmi, chessò, una carota, una mela o un pezzo di pane, qualunque cosa pur di mettere in corpo un po di energia. Ma sono tedeschi e non provo nemmeno ad iniziare la conversazione.
Il sentiero si immette su una strada bianca carrabile che aumenta di pendenza: affronto una salita che mi sembra non finire mai, ma è solo perché sto camminando e in un tempo ignobile raggiungo la fine dove si trova un cancello aperto. Controllo il quadrante dell’orologio e il tracciato GPS mi mostra che il mio cammino si è finalmente ricongiunto al percorso dell’andata: infatti mi giro e riconosco quell’ingresso che avevo evitato. Prendo il grosso sterrato in direzione Saint Florent e vista la lieve pendenza provo a correre, ma con scarsissimo successo. Non è ho davvero più. Nemmeno di acqua.
Il sole è quasi a picco, mancheranno sì e no 5 o 6 chilometri e sto per essere sopraffatto dallo sconforto e dai pensieri cattivi; spero di incontrare qualcuno così se dovessi collassare almeno potrei ricevere aiuto. Sento un rumore alle mie spalle, un motore, una macchina che si avvicina e mi sfiora il pensiero di chiedere un passaggio, ma è un fiorino cassonato a due posti con due persone a bordo.
L’idea del passaggio però si fa strada nella mia mente stravolta e comincio a convincermi che ne varrebbe la pena.
Al diavolo l’orgoglio e l’onore.
Passano solo pochi minuti e un’auto spunta alle mie spalle, non mi giro nemmeno e continuando a camminare alzo il braccio e mostro il pollice all’insù. È la prima volta in vita mia che faccio l’autostop e sono fortunato perché il conducente si ferma e abbassa il finestrino e mi propone di salire dietro: sbiascicando in un francese vergognoso saluto e ringrazio la donna al volante e i due suoi figli che poi iniziano a parlare italiano tra loro.
“A ma siete italiani! Non so come ringraziarvi!”
“Devi essere davvero stanco, non hai nemmeno visto la nostra targa! Quanto hai corso?”
Questo mi ricorda che devo stoppare il Garmin e così vedo il resoconto della mia uscita e posso rispondere con precisione:
“31 chilometri, sono andato a Saleccia”
“Ma oggi?!” chiede il ragazzino più giovane.
“Bhè, sì: sono partito dal campeggio questa mattina alle 7. Solo che poi ho finito l’acqua, non ho nulla da mangiare e ho finito le energie e non sono più riuscito a correre”.
“Ma ci hai messo 4 ore e mezza!”
“Eh, lo so, davvero troppo: un’ora in più di quanto avessi previsto. E così ho messo da parte l’orgoglio e ho pensato ad un passaggio.”
In meno di cinque minuti arriviamo sulla strada asfaltata, la signora lascia i figli alla scuola di vela e, anche se le dico che posso arrivare a piedi al mio campeggio, insiste per accompagnarmi:
“Sai, sono di Ivrea, mio padre correva sulle nostre montagne e so cosa vuol dire arrivare stremati.”