Quando il paradiso diventa inferno

Quando il paradiso diventa inferno

Sentiero da Saint Florent a Saleccia - Corsica

Prologo

La sveglia suona alle 6, c’è ancora buio quindi mi lascio tentare dal caldo del saccoapelo e rimando la levataccia di qualche minuto: riapro gli occhi alle 6.30, scendo dal letto sul tetto del mio VW T3 Westfalia cercando di non svegliare moglie e figlia che dormono sotto. Sgattaiolo fuori dove posso indossare quanto avevo preparato ieri sera: body spezzato della Asics, visierina, calze a compressione, Salomon SpeedCross 3 e zainetto idrico Ferrino che riempio con un litro e mezzo d’acqua, una banana e l’unico gel energetico che ho. Non posso fare colazione perchè non ho preparato nulla e gli stipetti nel furgoncino non sono accessibili, “vabbè l’uscita in programma per oggi non è così lunga”: l’obiettivo è arrivare alla mitica spiaggia di Saleccia nel deserto degli Agriates partendo dal nostro campeggio alle porte di Saint Florent. Da Google Maps la distanza da coprire è di circa 12 chilometri.

Start, si corre!

Alle 7 in punto avvio il mio Garmin Fenix 3 e mi metto a correre a passo blando, raggiungo la spiaggia, godo delle luci dell’alba sulla baia di Saint Florent e delle mie orme sulla sabbia del bagnasciuga, le uniche a quest’ora.
Passo i due campeggi, la spiaggia finisce, la strada piega verso l’interno e comincia a salire lentamente.

Le costruzioni finiscono e l’asfalto cede il posto allo sterrato, una strada bianca e ben battuta che si snoda al limitare del deserto tra le rocce e il mare.

Mi accorgo che dietro di me un altro trail runner avanza agile, in pochi minuti, su una salita che comincia a tirare, mi raggiunge: ci salutiamo in un inglese incerto, anche lui è diretto a Saleccia. “Bene” penso “almeno so di essere sulla strada giusta”.
Il suo passo è più efficace del mio e mi distanzia velocemente; speravo di poter correre con un po’ di compagnia..

 

Nel trail running forse si deve stare da soli, accompagnati solamente dai propri pensieri.

Cerco sempre di tenerlo in vista, accelerando sulle discese, mentre i chilometri scorrono sotto i piedi lungo un tratto panoramico a 300 metri sul livello del mare, finché un cancello di ferro mi sbarra il passaggio: alcune macchine parcheggiate su uno spiazzo vicino indicano che la strada carrabile è terminata e non essendoci altri passaggi mi convinco che si debba proseguire aprendo il cancello, bloccato solo da un chiavistello.
Riparto, giro la curva e la maglia arancione spunta in lontananza.

Altro chilometro e altro cancello, che questa volta apro e supero senza indugi, quindi comincia un tratto in discesa e dietro una curva mi viene incontro il trail runner che sostiene di aver sbagliato strada. Consultiamo le mappe sugli smartphone per constatare che la strada è giusta, o almeno, è l’unica: così procediamo insieme facendo due chiacchiere fino al punto in cui la strada termina in corrispondenza di un casale apparentemente disabitato.
Ci dividiamo per cercare un passaggio che ci consenta di proseguire: in lontananza vedo una traccia bianca e stretta tra la vegetazione, ma come raggiungerla?
Evidentemente lo ha scoperto il mio amico che la sta già percorrendo e quando mi vede si sbraccia indicandomi il passaggio ai piedi del casale.
Faccio dietrofront, giro attorno alla costruzione che ha uno strano ponte levatoio sul portone principale e percorro il viale che porta fuori dalla proprietà dove trovo un alto cancello, chiuso da un catenaccio.

L’unico passaggio è attraverso la recinzione in un punto dove del filo spinato schiacciato consente di saltare al di là del muretto della proprietà in modo relativamente sicuro.

Il sentiero verso il paradiso

Ora posso correre spedito su un tratto in piano che si avvicina sempre di più al mare sulla destra che offre scorci meravigliosi su calette di scogli e spiaggette paradisiache dal mare di mille sfumature di turchese dove alcune barche sonnecchiano in rada.

Lungo questo tratto dei paletti di metallo riportano la dicitura “sentier littoral” e in occasione di bivi l’aggiunta di “Plage du Lotu” con freccia a destra e “Saint Florent” a sinistra.

Il sentiero si apre su una spiaggia splendida che invoglia a fermarsi per un bagno, ma io ho Saleccia come obiettivo da raggiungere. Un cartello nel punto dove il sentiero si immette sulla spiaggia riporta “Plage de Fiume Santo, Desert des Agriates”.

Corro per un centinaio di metri sulla sabbia dorata quando mi vedo costretto a fermarmi: un fiume cristallino taglia il passaggio e si immette in mare, ecco il fiume Santo.
Mi guardo intorno per capire come aggirarlo, cerco il runner che mi precedeva sulla costa davanti a me: nulla.

Il tempo di pensare che l’unico modo per procedere è guadare il fiume che un altro trail runner mi giunge alle spalle. Ci salutiamo, mi conferma con un cenno che si deve attraversare il fiume e comincia a togliersi scarpe e calze. Faccio lo stesso mentre lui affronta il guado e nella parte centrale l’acqua gli arriva alle spalle; noto che i piedi gli affondano nel fondale dove diventa scuro. Comunque in pochi secondi è dall’altra parte, quindi mi accingo anche io ad attraversare con in mano le scarpe da una parte e lo smartphone dall’altra.
L’acqua è fresca e mi dona un bell’effetto refrigerante alle gambe dopo un’ora di corsa. I piedi si posano sulla massa scura al centro e affondo di colpo di mezzo metro: il fondale è ricoperto di strane alghe, simili al fango, ma basta solo qualche passo per uscire da questa sensazione e ritrovare la confortante sabbia e quindi la sponda opposta.
Ci rimettiamo calze e scarpe su piedi bagnati e ripartiamo insieme lungo il sentiero che costeggia il mare e dopo circa un chilometro si inerpica tagliando un promontorio dalla cui sommità si vede un faro: è il faro di Punta Mortella.

Faro di Punta Mortella

Dopo poco raggiungiamo una costruzione, probabilmente l’abitazione del custode del faro quando era in funzione. Qui facciamo una breve pausa per ammirare il panorama e scattare una foto, poi mi fa capire che per lui è ora di tornare indietro: io sto correndo da un’ora e venti e voglio continuare, almeno fino alla spiaggia di Lotu che non dovrebbe distare molto ormai.
Una stretta di mano e ci dividiamo: dopo pochi minuti di ripida discesa mi ritrovo su una caletta piccolissima e deliziosa chiamata Plage du Petit Lotu: ecco questa è il prototipo di spiaggia che piace a me, piccola, isolata e senza persone… se solo non fosse così difficile da raggiungere.

La percorro correndo sul bagnasciuga compatto e proseguo sul sentiero costiero ben segnalato che si perde nella vegetazione per poi sbucare su una grande spiaggia bianchissima che delimita una grande rada con ormeggiata una sola barca a vela.
Metto piede su Plage du Lotu e vedo una coppia nuda che amoreggia sulla sabbia, un filo di invidia mi pervade, ma per non rovinargli questo momento cerco di filare via più veloce che posso, compatibilmente con lo sprofondare sulla sabbia asciutta prima di raggiungere il bagnasciuga.

Plage du Lotu

Attraverso tutta la spiaggia, 500 metri di pura bellezza deserta e incontaminata, prima di dare uno sguardo al Garmin: ho corso 13 chilometri in un’ora e quaranta minuti, un po’ più del tempo previsto in effetti, per cui mi fermo ad un bivio con delle indicazioni, per decidere cosa fare.

  1. Seguire il cartello Plage de Saleccia Sentier du littoral: 1h15m
  2. Seguire il cartello Plage de Saleccia par l’intérieur: 45m
  3. Tornare indietro accontentandomi di essere arrivato a Lotu.

Vabbè, sono arrivato fin qui, vuoi non arrivare a Saleccia, passando per il campeggio U Paradisu e verificare se vale la pena portarci la famigliola tra qualche giorno?
Scelgo la strada che passa all’interno, valutando che 45 minuti a piedi corrispondono a meno della metà se li corro bene. In un paio di punti in cui il tracciato incrocia altre strade mi vedo costretto a fermarmi e a consultare google maps per verificare dove andare, perchè di sbagliare strada e perdermi nel deserto degli Agriates ora proprio non mi va.

Il paradiso

Dopo 20 minuti nel niente sbuco all’ingresso del campeggio U Paradisu, che definir spartano è tanto, ma forse è l’unico posto che incarna ancora lo spirito del campeggio come lo era una volta, prima di diventare il surrogato di un villaggio turistico.
Ci corro attraverso, tra tende e camper hippie, seguendo il cartello “plage”, lungo un sentiero che in 300 metri mi porta su una spiaggia enorme lambita dal mare più bello che abbia mai visto: “Ecco Saleccia, davvero un paradiso!“.
Sto correndo ormai da più di due ore ed è arrivato il momento per mangiare la banana e per concedersi un bagno: lascio zainetto, scarpe e calze su un tronco arenato al centro della spiaggia che sembra messo lì apposta per me, metto gli occhialini e nuoto un po’ di bracciate, godendo del fresco e dell’acqua cristallina.

Vorrei nuotare di più, ma mi rendo conto di essere nel punto più lontano dal mio campeggio, aver già corso 17 chilometri, di essere fuori da oltre due ore e ora mi tocca fare tutta la strada a ritroso.

 

Plage du Saleccia

Esco dal mare, rimetto lo zaino idrico e do una bella sorsata, sentendo il tipico gorgoglio che presagisce la fine dell’acqua: “oh cazzo!”. Riprendo a correre scalzo sulla sabbia con le scarpe in mano per coprire la distanza fino alla fine della spiaggia dove spero di trovare alcuni scogli su cui sedermi, lavare i piedi dei granelli di sabbia e rimettere calze e scarpe.
Così è, ma intanto il tempo passa e quando mi rimetto in moto sono nel punto opposto della spiaggia rispetto a quello da cui sono arrivato, quindi rifare la strada che passa dall’interno è escluso: il cartello che avevo visto a Lotu riportava 1h15m di cammino, ma io ce ne metterò certamente meno e poi correrò sulla litoranea, che sicuramente è più bella.
In effetti il panorama è splendido, ora il mare ce l’ho a sinistra, alcuni tratti li corro balzando tra rocce e scogli levigati dal tempo e dal mare, altri su sabbia tra cespugli seccati dal sole, altri su strapiombi che costeggiano deliziose calette.

La strada verso l’inferno

In circa 25 minuti mi ritrovo all’imbocco della Plage du Lotu, che nel frattempo si sta popolando di bagnanti; mi rendo conto che sto facendo molta più fatica di prima a correre sulla sabbia per cui ritengo sia il momento giusto per assumere il gel energetico, accompagnandolo con un pò d’acqua: per fortuna il gel della SIS è molto liquido e va giù bene perché l’acqua della sacca idrica è drasticamente terminata. Cerco di non farmi prendere dal panico, anche se sento che la temperatura comincia salire e con essa l’arsura.

Percorro a fatica il tratto successivo e mi rendo conto che il ritmo sta calando: ho sete, ho fame, corro da 3 ore, sono solo al 23° chilometro e sto entrando in disidratazione.
Quando arrivo a le Petit Lotu vedo una signora in topless sul bagnasciuga col marito che avvicina un gommone a riva e mi dirigo verso di loro. In un pessimo francese, affannato e con la bocca riarsa provo a chiedere “de l’eau, si vous plait”.
La signora deve aver visto il panico nei miei occhi e subito attiva il marito: “Caro prendi la bottiglia dell’acqua dal gavone che questo ragazzo ha sete!
Mi spertico nel ringraziarla, ovviamente in italiano.
Gentilissimo, il signore, con uno spiccato accento ligure, mi chiede da dove arrivo mentre mi versa l’acqua in un minuscolo bicchierino da caffè. Gli spiego il giro che ho fatto e che devo fare mentre riempie altri 4 bicchierini che trangugio senza sosta; lui mi racconta che conosce bene il percorso e che lo ha fatto varie volte, ma mai di corsa, e che c’è una sorgiva d’acqua fresca poco distante, ma non si ricorda esattamente dove.
Nel frattempo la signora mi omaggia di una bottiglietta d’acqua da mezzo litro che, ringraziando, travaso nella sacca idrica prima di ripartire con ritrovata energia.
Energia che però dura poco: il rischio disidratazione è scampato, ma ora mi rendo conto che sono entrato pienamente in crisi di fame. Le gambe non ne vogliono sapere di correre e mi ritrovo a camminare non solo su punti in salita, ma anche in piano, mentre la testa fatica a stare concentrata sul percorso, lasciando entrare i pensieri cattivi su quanto di peggio potrebbe succedermi.

Raggiungo in un tempo che mi sembra infinito il punto dove avevo salutato il secondo runner che mi aveva fatto compagnia per un pezzo e proprio lì arriva in senso opposto una trail runner che mi saluta e saltella via. Vorrei fare altrettanto, ma sento le gambe di piombo e affronto la successiva discesa con calma e concentrazione: sono già inciampato in un paio di rocce su tratti in piano, vorrei evitare di fare altrettanto in discesa col rischio di rompermi qualche osso.

Sono in giro da tre ore e mezza e ho fatto 25 chilometri e me ne mancheranno altri 10, mi sento in colpa nei confronti di mia moglie che probabilmente mi sta aspettando preoccupata pertanto le mando un sms con la speranza che abbia il telefono con sé e possa leggerlo: i piani erano di lasciare il campeggio entro le 12 per spostarci a Calvi, ma di questo passo non arriverò mai in tempo.
Il caldo sta diventando asfissiante nei punti più esposti, ci saranno almeno 35°C e quando arrivo alla spiaggia del Fiume Santo sono felice di doverlo guadare pregustandone il refrigerio.
Non fa niente se tutta l’operazione, tra togliere scarpe e calze, attraversare il fiume, correre la spiaggetta scalzo fino agli scogli successivi, rimettere calze e scarpe, mi fa perdere tempo: riparto e il Garmin mi avvisa che anche il 26° chilometro l’ho percorso in 11 minuti. Me ne vergogno, ma continuo, prendendo una deviazione che mi allontana dalla costa, nella speranza di tagliare, ma che mi costringe a nuove salite e discese rispetto all’andata sotto un sole sempre più cocente.

Quando sbuco sulla spiaggia successiva sento l’esigenza di bagnarmi il capo, quindi mi avvicino al bagnasciuga: come mi abbasso per raccogliere l’acqua del mare i piedi sprofondano nella sabbia bagnata, un’onda li raggiunge e le scarpe si inzuppano… ci mancava solo questo.
La mia reattività è prossima allo zero e devo raschiare sul fondo per cercare forze che non ho.
Mi vengono in soccorso alcuni passi del libro Perseverare è Umano” di Pietro Trabucchi che sto leggendo in questa vacanza; “motivazione, resilienza e autoefficacia”: con questo mantra passano altri chilometri, ma non guardo più i dati di velocità e tempo del Fenix 3 per non demotivarmi, impostandolo in modalità “traccia GPS” così da vedere quanto manca al ricongiungimento con il sentiero dell’andata e all’arrivo.
Al trentesimo chilometro mi si presenta un bivio: sentiero litorale, che non conosco, o quello verso l’interno? Uso la poca lucidità che mi rimane per fare la scelta più “comoda”.

Lascio il mare e taglio a destra, su un ponticello di legno dove incrocio dei ragazzi in tenuta da mare con zaini sulle spalle e bottiglie d’acqua in mano: vorrei chieder loro se hanno qualcosa da mangiare da offrirmi, chessò, una carota, una mela o un pezzo di pane, qualunque cosa pur di mettere in corpo un po di energia. Ma sono tedeschi e non provo nemmeno ad iniziare la conversazione.
Il sentiero si immette su una strada bianca carrabile che aumenta di pendenza: affronto una salita che mi sembra non finire mai, ma è solo perché sto camminando e in un tempo ignobile raggiungo la fine dove si trova un cancello aperto. Controllo il quadrante dell’orologio e il tracciato GPS mi mostra che il mio cammino si è finalmente ricongiunto al percorso dell’andata: infatti mi giro e riconosco quell’ingresso che avevo evitato. Prendo il grosso sterrato in direzione Saint Florent e vista la lieve pendenza provo a correre, ma con scarsissimo successo. Non è ho davvero più. Nemmeno di acqua.
Il sole è quasi a picco, mancheranno sì e no 5 o 6 chilometri e sto per essere sopraffatto dallo sconforto e dai pensieri cattivi; spero di incontrare qualcuno così se dovessi collassare almeno potrei ricevere aiuto. Sento un rumore alle mie spalle, un motore, una macchina che si avvicina e mi sfiora il pensiero di chiedere un passaggio, ma è un fiorino cassonato a due posti con due persone a bordo.
L’idea del passaggio però si fa strada nella mia mente stravolta e comincio a convincermi che ne varrebbe la pena.

Al diavolo l’orgoglio e l’onore.

Passano solo pochi minuti e un’auto spunta alle mie spalle, non mi giro nemmeno e continuando a camminare alzo il braccio e mostro il pollice all’insù. È la prima volta in vita mia che faccio l’autostop e sono fortunato perché il conducente si ferma e abbassa il finestrino e mi propone di salire dietro: sbiascicando in un francese vergognoso saluto e ringrazio la donna al volante e i due suoi figli che poi iniziano a parlare italiano tra loro.
A ma siete italiani! Non so come ringraziarvi!
Devi essere davvero stanco, non hai nemmeno visto la nostra targa! Quanto hai corso?
Questo mi ricorda che devo stoppare il Garmin e così vedo il resoconto della mia uscita e posso rispondere con precisione:
31 chilometri, sono andato a Saleccia
Ma oggi?!” chiede il ragazzino più giovane.
Bhè, sì: sono partito dal campeggio questa mattina alle 7. Solo che poi ho finito l’acqua, non ho nulla da mangiare e ho finito le energie e non sono più riuscito a correre”.
Ma ci hai messo 4 ore e mezza!
Eh, lo so, davvero troppo: un’ora in più di quanto avessi previsto. E così ho messo da parte l’orgoglio e ho pensato ad un passaggio.
In meno di cinque minuti arriviamo sulla strada asfaltata, la signora lascia i figli alla scuola di vela e, anche se le dico che posso arrivare a piedi al mio campeggio, insiste per accompagnarmi:
Sai, sono di Ivrea, mio padre correva sulle nostre montagne e so cosa vuol dire arrivare stremati.

Epilogo

Appena arrivato al mio furgoncino ho cercato subito qualcosa da mangiare e da bere: ho ingurgitato mezzo litro di yogurt liquido più un vasetto di yogurt normale, due barrette kinder, un numero imprecisato di biscotti, una banana e una lattina di coca cola e oltre un litro d’acqua. Quindi mi sono sdraiato ed addormentato. Mi ha svegliato l’arrivo di mia moglie dopo 10 minuti, di ritorno dalla piscina dove avevamo appuntamento al mio rientro.
Amore ero preoccupata, dove sei stato? Sei vivo?
Sì. E sono un coglione, scusami.